Con l'arrivo di Frankenstein (2025) di Guillermo del Toro su Netflix, è il momento perfetto per rimettere in fila tutti i film di Frankenstein e capire perché questa creatura continua a far battere il cuore del gotico su grande schermo.
Nato nel 1818 dalla penna di Mary Shelley (il “moderno Prometeo”), il mito tocca nervi ancora attualissimi: l’ambizione scientifica, la responsabilità del creatore, il desiderio disperato di essere guardati. Da allora, il personaggio del dottor Victor Frankenstein e la sua creatura hanno ispirato innumerevoli adattamenti, reinterpretazioni e parodie nel cinema, in televisione e nel teatro: dall'interpretazione horror classica e iconica di Boris Karloff (1931) alle rivisitazioni di Terence Fisher con la Hammer a partire da La Maschera di Frankenstein (1957), fino a rappresentazioni più moderne e drammatiche, ma anche risvolti più comici ed ironici come il Frankenstein Junior (1974) di Mel Brooks o la versione animata in Hotel Transylvania (2012), così come rivisitazioni del canone come accade per la figura della Creatura nella serie TV gotica Penny Dreadful (2014 - 2016). E il presente promette nuove metamorfosi: oltre al progetto di del Toro, è in fase d’uscita anche il film di Maggie Gyllenhaal centrato sulla Sposa, The Bride (2026).
Se vuoi entrare in modalità spooky, recuperare i classici o scoprire le varianti più inventive (e capire anche come vederli in ordine di uscita), o anche solo prepararti al nuovo film di Guillermo Del Toro, sei nel posto giusto: qui sotto approfondiamo le 10 trasposizioni migliori da non perdere, tra cult assoluti e rivisitazioni originali; in fondo trovi la lista completa dei film e delle serie su Frankenstein.
Frankenstein (1931)
Frankenstein, il capolavoro di James Whale è la radice dell’immaginario: fotografia espressionista, scenografie da laboratorio alchemico e un Boris Karloff che scolpisce il dolore della Creatura con pochi gesti indimenticabili. Vederlo oggi significa capire come nasce il linguaggio del mostro tragico al cinema: la paura non sta solo nella scossa, ma nello sguardo che chiede accoglienza.
Il film di Guillermo del Toro promette di rilanciare la lettura compassionevole di Shelley, e tornare alle origini rende più ricco il confronto. Ideale per chi ama l’horror classico e la storia del cinema, ma anche per chi cerca emozione pura sotto il trucco. In scia, da recuperare le ombre gotiche di Dracula (1931) e il sogno deformato de Il gabinetto del dottor Caligari (1920): due tasselli che raccontano come il gotico sia diventato grammatica.
La moglie di Frankenstein (1935)
Con La Moglie di Frankenstein, Whale raddoppia e supera sé stesso con un sequel che è anche satira, più spregiudicato e moderno del capostipite. La Sposa appare poco, ma basta per diventare icona; intanto il film lavora su toni ironici e blasfemi, innestandoli nella tragedia di un essere che chiede compagnia.
La Sposa è al centro del presente: dal progetto di Maggie Gyllenhaal alle riflessioni su genere e identità che attraversano i nuovi adattamenti. Consigliato a chi vuole scoprire che il classico può essere pop e a chi ama l’horror intelligente che gioca con le convenzioni. In parallelo, a segnare sul taccuino Il castello maledetto (1932), sempre di Whale, e Il dottor Jekyll e Mr. Hyde (1931): due percorsi affini che mostrano quanto il gotico sappia ridere e farsi inquietante.
La maschera di Frankenstein (1957)
Con Terence Fisher e la Hammer arriva la rivoluzione a colori: sangue laccato, erotismo suggerito, Peter Cushing come scienziato glaciale e Christopher Lee in una Creatura più minacciosa. La Maschera di Frankenstein è il punto in cui Frankenstein diventa moderno, con un’etica piegata all’ossessione e un’estetica che influenza decenni di cinema.
L’impatto visivo e morale di Fisher è l’antenato diretto di tante riletture contemporanee che vogliono un Victor più ambiguo. Ideale per chi ama gli horror britannici e i set artigianali pieni di invenzioni. In continuità, da vedere The Revenge of Frankenstein (1958) e Dracula il vampiro (1958): il primo consolida il cinico Victor di Cushing, il secondo spiega il metodo Hammer applicato ai miti classici.
The Munsters (1964–1966, serie TV)
Prima dell’era dei multiversi, c’era la sitcom che trasformava i mostri in famiglia della porta accanto. The Munsters è affettuosa, slapstick, piena di trovate visive low‑tech che oggi profumano di vintage e funzionano ancora con i più piccoli.
L’uscita di del Toro riaccende il desiderio di variare il tono: tra un dramma gotico e l’altro, questa è la pausa perfetta per ricordarci che i mostri possono far ridere senza perdere umanità. Target: nostalgici, famiglie, curiosi del costume televisivo USA. Se vuoi restare in vena “stramba & domestica”, appuntati The Addams Family (1964–1966) e, per una versione aggiornata, Hotel Transylvania (2012): altre due strade per educare al mostruoso con leggerezza.
Frankenstein Junior (1974)
Con Frankenstein Junior, Mel Brooks e Gene Wilder firmano la parodia definitiva, girata in bianco e nero e piena d’amore per i classici Universal. Funziona perché fa ridere senza deridere: il rispetto per Karloff & co. convive con gag immortali (“Si può fare!”) e una regia che ricrea le texture del ‘31 con precisione maniacale.
Con l’arrivo di un Frankenstein autoriale e cupo, e Young Frankenstein ricorda quanto il mito sappia accendere la gioia oltre alla paura. Perfetto per chi cerca una commedia intelligente, adatta anche a serate condivise. Se vuoi restare sul filone horror‑comedy senza ripetere i titoli di questa top, ottimi compagni di viaggio Abbott and Costello Meet Frankenstein (1948) e What We Do in the Shadows (2014): due modi diversi di ridere con i mostri, non dei mostri.
Frankenstein di Mary Shelley (1994)
Kenneth Branagh punta all’epica romantica con Mary Shelley’s Frankenstein: sudore, febbre, muscoli e una Creatura di Robert De Niro fragile e terribile. È una rilettura imperfetta ma sincera, che riporta al centro l’ossessione del creatore e la compassione per l’opera. Oggi è interessante perché dialoga con l’idea di un Frankenstein autoriale che il film di del Toro sembra voler rilanciare: grande melodramma gotico, corpi al limite, questioni morali senza rete. Per chi ama i gothic revival anni ’90 e le trasposizioni fedeli ma appassionate e, per restare nella stessa vibrazione senza duplicare titoli in classifica, prova il barocco sensuale di Bram Stoker’s Dracula (1992) e l’incubo romanticista di Gothic (1986) di Ken Russell: due sponde che raccontano l’ossessione come spettacolo.
Frankenweenie (2012)
Il ritorno di Tim Burton al bianco e nero stop‑motion è una lettera d’amore all’horror classico e ai cani che ci salvano la vita. Frankenweenie è un film tenero, pieno di citazioni ma anche di invenzioni, che parla ai bambini senza infantilizzare gli adulti: la resurrezione qui è educazione al lutto e all’affetto. Ci ricorda il cuore artigianale e affettuoso del mito rende più ricca la visione del Frankenstein cupo che sta arrivando. Sicuramente per famiglie, nostalgici di Burton, chi ama l’animazione tattile. In scia, da (ri)vedere l’elegia gotica di La Sposa Cadavere (2005) e il coraggio para‑horror di ParaNorman (2012): due titoli che, da angoli diversi, insegnano come si parla di mostri ai più piccoli.
Penny Dreadful (2014–2016, serie TV)
Penny Dreadful, la serie di John Logan, mescola miti vittoriani (Frankenstein, Dracula, Dorian Gray) in un melodramma gotico elegantissimo, con momenti di puro dolore e immagini da museo delle cere in movimento. Il Frankenstein televisivo qui è etico e poetico: le Creature sono specchi, non solo minacce.
Indubbiamente il miglior allenamento emotivo in vista di un Frankenstein autoriale al cinema: ti prepara a soffrire bene. Ideale per chi ama i drammi corali, la poesia del macabro, le serie dal ritmo ruvido. Per restare in area, prova l’indagine storica e cupa di The Frankenstein Chronicles (2015–2017) o il gotico sensuale di Crimson Peak (2015) di del Toro: due ponti perfetti tra letteratura e cinema visionario.
Mary Shelley (2017)
Mary Shelley, il biopic di Haifaa al‑Mansour, sposta il fuoco sull’autrice: l’amore tempestoso con Percy Bysshe Shelley, l’amicizia competitiva con Lord Byron, il dolore che diventa immaginazione radicale. Non è un film perfetto, ma è prezioso perché ricorda che Frankenstein nasce dalla voce di una giovane donna in un mondo che non la voleva ascoltare. Alla vigilia di nuove trasposizioni è giusto tornare alla madre di tutte le creature e rimettere a fuoco i temi originari: creazione, responsabilità, alterità. Consigliato a chi cerca biopic letterari che non siano a tesi. In scia, da recuperare la poesia di Bright Star (2009) e il ritratto d’artista di The Invisible Woman (2013): storie sorelle su genio, amore e costo della creazione.
Lisa Frankenstein (2024)
Zelda Williams dirige da una sceneggiatura di Diablo Cody una teen horror‑romcom che porta il mito nel liceo: colori acidi, humour macabro e una creatura che diventa specchio dei desideri (e delle insicurezze) di un’adolescente. Lisa Frankenstein funziona perché aggiorna l’iconografia senza paura del kitsch, puntando tutto sulla chimica e sul tono da fiaba dark.
Racconta quanto Frankenstein sia un format elastico: può essere tragedia adulta o avventura di formazione pop. Chi ama horror leggeri, YA con mordente, commedie nere troverà pane per i suoi denti. Se vuoi restare su coordinate affini senza sovrapporre i titoli della top, punta alla rom‑zom‑com Warm Bodies (2013) o al cult femminista Jennifer’s Body (2009): due modi diversi di trasformare la morte in desiderio narrativo.
































































































